Approfondimenti e letture

DiStudio Berti Bagnasco

L’eccessiva genericità della contestazione disciplinare può portare alla reintegra del lavoratore licenziato

Con la sentenza in oggetto, la Corte d’Appello di Torino ha disposto la reintegra di un impiegato bancario, assistito dagli Avvocati dello Studio, che era stato licenziato per giusta causa, poiché, così ha rilevato la Corte, la contestazione disciplinare che ha preceduto il licenziamento era talmente generica da non consentire al lavoratore di presentare le proprie giustificazioni, provocando, così, un’irreparabile lesione del diritto di difesa.

La Corte d’Appello, nell’emettere tale provvedimento, ha ripreso le parole della Corte di Cassazione (sentenza n. 4879/2020), affermando che “il radicale difetto di contestazione dell’infrazione determina l’inesistenza dell’intero procedimento, e non solo l’inosservanza delle norme che lo disciplinano, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria, di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, richiamata dal comma 6 del predetto articolo per il caso di difetto assoluto di giustificazione del provvedimento espulsivo, tale dovendosi ritenere un licenziamento disciplinare adottato senza alcuna contestazione di addebito.”

 

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Sentenza storica della Corte d’Appello di Firenze: il lavoratore che viene discriminato in ragione della propria iscrizione ad un sindacato ha diritto ad essere risarcito del danno patito

In questa coraggiosa pronuncia della Corte d’Appello di Firenze, su un tema estremamente delicato e fino ad oggi poco considerato dalla Giurisprudenza,  è stata confermata la decisione del Tribunale di Pisa che aveva rilevato il carattere discriminatorio della condotta del datore di lavoro, in quanto aveva trasferito e poi demansionato il lavoratore a seguito dell’iscrizione di quest’ultimo ad un sindacato.

La Corte d’Appello ha fondato il proprio convincimento, tra gli altri, su due colloqui intercorsi tra il Vicedirettore della Banca e il lavoratore, il cui fine era quello di disincentivare l’iscrizione del lavoratore al sindacato ricorrendo a minacce di ripercussioni sulla sua carriera, come è poi effettivamente avvenuto. Tali condotte, ritenute “già di per sé particolarmente gravi e reiterate” , unite al successivo trasferimento e demansionamento del lavoratore, hanno fatto sì che il Giudice di merito riconoscesse al lavoratore il diritto al risarcimento del danno patito.

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L’iscrizione della società al Registro delle Imprese non comporta automaticamente il versamento della quota contributiva all’Inps da parte dei soci

Con la sentenza qui riportata il Tribunale di Torino ha enunciato un importante principio, in forza del quale, ai fini del versamento della quota contributiva all’Inps a carico dei soggetti iscritti alla gestione commercianti (art. 1, comma 203, l. n. 662/1996), non basta che la società di cui essi sono soci risulti iscritta al Registro delle Imprese, bensì si deve verificare che essi svolgano concretamente un’attività lavorativa al suo interno.

Nel caso di specie, infatti, l’azienda della cliente era stata ceduta e la sua mancata cancellazione dal Registro delle Imprese era dovuta a necessità di carattere burocratico, che non dimostravano il prosieguo delle attività, motivo per il quale l’Inps non avrebbe potuto esigere da lei alcuna somma a titolo contributivo.

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Gli effetti di un accordo con clausola c.d. tombale nei rapporti tra la banca e il dipendente.

Nella sentenza qui riportata viene esaminata una questione tanto complessa quanto di fondamentale importanza nei rapporti sussistenti tra la banca e il dipendente. In essa si analizza il caso in cui le parti abbiano posto fine al rapporto di lavoro tramite un accordo di risoluzione consensuale, apponendovi una clausola c.d. tombalein cui affermano di non aver più nulla a pretendere l’uno dall’altro in relazione all’attività svolta dal dipendente nell’ambito del rapporto di lavoro.

Ciò significa, come ha sottolineato la sentenza, che la Banca non potrà più applicare sanzioni o chiedere il risarcimento di eventuali danni al dipendente in relazione a comportamenti da esso tenuti che le erano già noti al momento di cessazione del rapporto e che non integrino dolo o colpa grave del dipendente. Solo se dovessero emergere in un secondo momento condotte dolose o gravemente colpose del dipendente o che in ogni caso abbiano causato notevoli danni alla Banca, quest’ultima potrebbe rivalersi sul dipendente pur sussistendo un accordo transattivo.

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Mancato superamento del periodo di prova nel Pubblico impiego: la comunicazione deve pervenire prima dello scadere del termine

Nel caso qui riportato una dipendente della Pubblica amministrazione, risultata vincitrice di un bando di mobilità interna, era stata sottoposta dalla Datrice di lavoro ad un periodo di prova della durata di tre mesi, il cui superamento con una valutazione positiva era condizione necessaria per la stipula definitiva del contratto. Il fatto che la comunicazione di mancato superamento della prova sia stata effettuata circa un mese dopo la conclusione della stessa, ha portato il Tribunale di Torino a considerare tale comunicazione priva di effetto e a riconoscere alla dipendente sia il diritto a ricoprire la posizione che gli era stata negata sia un risarcimento per il danno subito.

Il giudice ha, infatti, sottolineato che “la prova debba ritenersi superata ove non intervenga, prima della conclusione del periodo di tre mesi, una comunicazione in senso ostativo da parte del datore di lavoro”.

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Malattia durante un soggiorno all’estero: gli adempimenti richiesti al lavoratore.

In questa pronuncia, la Corte di Cassazione si è soffermata sulle incombenze che deve espletare il dipendente che si ammali nel corso di un soggiorno all’estero e debba, dunque, giustificare il mancato ritorno sul posto di lavoro al proprio datore. Secondo quanto eccepito dalla controparte, la dipendente avrebbe dovuto non solo rendere edotto il datore di lavoro della malattia trasmettendogli un’attestazione del medico curante, ma anche mettere a parte degli eventi il Consolato italiano; formalità, quest’ultima, che non essendo stata adempiuta, aveva causato il licenziamento della dipendente per assenza ingiustificata.

Di diverso avviso è stata la Corte, la quale ha sottolineato come, ai sensi dell’art. 2 commi 1 e 2 del d.l. 30 dicembre 1979, n. 663, l’unico obbligo del dipendente nei confronti del datore di lavoro è di comunicare le ragioni della propria assenza, mentre la comunicazione alla rappresentanza diplomatica è richiesta solo ai lavoratori che svolgano la propria attività all’estero e che vogliano usufruire delle prestazioni dell’Inps. Per questo motivo, il licenziamento è stato dichiarato illegittimo, e, di conseguenza, la dipendente è stata reintegrata sul posto di lavoro

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